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Un miracolo nei campi

(6 Ottobre 1979)

Una volta il nostro buon contadino non offriva un modello di vita capace di suscitare nei figli un desiderio di emulazione ed un interesse verso il lavoro campestre. Il suo esempio non era certamente un invito per le nuove generazioni ad amare la terra, legato come era al carretto tirato dall’asino e alla zappa che ferisce il fisico. Nessuno può negare al nostro contadino una grande generosità, una infinita bontà d’animo, una incredibile capacità di sacrificio, una inesauribile forza contro le avversità della natura che spesso chiede un tributo di sangue e di pianto.
A queste qualità però non sempre corrispondeva un accettabile livello culturale, una solida tranquillità economica e la possibilità di occupare posti di responsabilità nella comunità. Egli veniva corteggiato e circuito perché era un voto; veniva organizzato perché era una “presenza”, un numero; veniva strumentalizzato troppo facilmente da chi deteneva il potere per fini sempre diversi da quelli che gli prospettavano. Ma alla fine rimaneva ’o cafone di sempre che sgobba nei campi per produrre e fare arricchire chi è più furbo di lui e che di lui sfrutta la forza ed il lavoro, vendendo al mercato i suoi prodotti a prezzi raddoppiati o triplicati, senza sporcarsi le mani o impolverarsi le scarpe.
Ed il figlio del contadino era il figlio del cafone; andava a scuola qualche volta con le mani sporche di lavoro, con i pantaloni rattoppati, con la giacca senza un bottone e strappata ai gomiti, spesso con il viso paonazzo per la vergogna. E veniva accettato (ahimè come scottano i ricordi ancora vivi!) come oggi si accetta un profugo sudvietnamita o uno zingaro. Egli sapeva farsi onore! Però, di notte, nel rivoltarsi nel letto (con il materasso fatto con le rumorose spoglie di granturco) certamente non sognava di seguire le orme del padre per sgobbare nei campi. Cominciava ad odiare la terra che rubava alla famiglia tutte le energie senza concedere frutti adeguati agli sforzi, ai sacrifici ed al fabbisogno quotidiano. Senza dire che non gli offriva la possibilità di costruirsi una casa con tutti i conforti necessari. Ah! Quanti contadini sono stati costretti alla dura vita delle baracche tedesche per offrire ai figli un avvenire migliore, con il sudore della fronte, lontani dalla amata moglie.
Ed io, figlio di contadini, che ho sofferto a lungo e personalmente nel lavorare la terra, non avrei mai scommesso una decina di anni fa che la vita dei campi cambiasse nell’immediato futuro. Soprattutto, non avrei mai scommesso un soldo falso sulla capacità del nostro contadino di “meccanizzare” il suo lavoro.<<’O ciuccio è nato pe tirà ‘a carretta!>> dice un vecchio adagio. E nei proverbi c’è sempre un fondo di verità e di saggezza popolare. Oggi devo ammettere (con soddisfazione!) di non essere stato un buon profeta. Ho sbagliato a non credere nelle infinite risorse fisiche e umane dell’uomo dei campi, il quale ha smentito coi fatti che l’asino è nato per tirare il carretto.
Il contadino si è meccanizzato!!! Ha incominciato lentamente con piccoli trattori a zappare la terra. Poi, piano piano, con trattori più grandi ha capito l’importanza della macchina. Allora via anche l’asino e il carretto! Via anche il tradizionale mantice. Ha acquistato pompe con motori per irrorare, il pigiatore ed il torchio dell’uva per uso proprio. E’ comparso l’elevatore elettrico, più comunemente chiamato “montacarico” a sostituire l’antica carrucola che spezzava le braccia quando bisognava tirare sui tetti i pesanti sacchi carichi di nocciuole e di noci. Quest’anno la grossa sorpresa: la macchina che raccoglie le nocciuole.
Tutto questo nell’arco di quattro o cinque anni. E se si pensa che le prime macchine per moltissimi anni si sono scontrate con una mentalità chiusa verso la meccanica, si può comprendere il grande sforzo che ha compiuto il nostro contadino per cambiare il suo modo di vivere e di lavorare, e il successo conseguito a pieno merito.
Nel volgere di un decennio posso assicurare che molte cose sono cambiate nelle abitudini e nella vita quotidiana del nostro contadino, il cui spirito di sacrificio ed il desiderio di migliorare, sollecitati soprattutto dal notevole contributo culturale dei figli, hanno provocato il miracolo. Il contadino non è più ’o cafone di una volta: è un lavoratore della terra che va in campagna con l’automobile o con il trattore e si è inserito nella società come uomo e non più come un numero. E questo certamente non è un giudizio di parte, è sicuramente un rilievo obiettivo. Ha una casa confortevole, ha un orario di lavoro come gli altri lavoratori dipendenti, va allo stadio ogni domenica, si porta a Torino non più per elemosinare lavoro ma per tifare per la squadra del suo cuore che va a mietere allori e a raccogliere gloria sui campi di gioco del nord. E’ tempo allora che si torni di nuovo nei campi, con entusiasmo, a lavorare la terra!
Attenti, però, a non ingigantire il pericoloso fenomeno degli ultimi tempi di comprare il raccolto di noci e nocciuole e avvicinarsi alla terra solo per sfruttarla ad agosto e settembre. La terra deve essere curata e lavorata per l’intero anno. La terra è come una donna: prima di scoprire le sue bellezze, vuole essere corteggiata e amata. Il vero contadino questo lo sa: egli per tutto l’anno ne accarezza il corpo con sapienza e lei non gli nega mai di raccogliere succosi frutti. E noi che siamo figli della terra sappiamo che lei si offre a chi sa capirla, a chi l’amore ce l’ha nel sangue!

(Dal giornale “Noi DC” stampato in occasione della terza “Festa dell’amicizia” – 6-7 Ottobre 1979)