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Via Bassomanno

 

Non fu semplice trovare Vallon dell'Erro.

<<Cos'è?... Dov'è?... Mai sentito nominare!>> furono le risposte che raccolsi in giro, la prima volta che andai alla sua ricerca, accompagnato dall’amico Sergio Iannaccone.

<<Mio Dio, dove mi trovo!?!>> pensavo con ansia.

           Dopo un paio di ore di inutile ricerca, tornando e ritornando negli stessi luoghi, finalmente una guardia forestale, avanzata negli anni e in borghese, salì in macchina e mi accompagnò laddove già ero stato inutil­mente  un paio di volte.

           Solo in seguito capìi perché nessuno conoscesse Vallon dell'Erro. Per la gente del luogo si chiamava semplicemente "Via Bassomanno" dal nome dell'unica strada che l'attraversava.

           Due massaie si avvicinarono, incuriosite dalla mia presenza. Io mi presentai e chiesi subito della scuola.

<<Puccio... Michele!>> chiamò una delle due ad alta vo­ce. <<Venite. C'è lu maestro nuovo!>>

           Fui subito circondato da un nugolo di ragazzi, una parte dei futuri alunni. Chiesi i loro nomi.

<<Rosanna... Puccio... Nicolina... Ermelinda... Cele­ste... Michele... Silvano... Rocco... Fioldisa.>>

           Presi sottobraccio Michele e Silvano, i due più piccoli, e mi feci accompagnare a scuola.

           Trevico, lassù in alto, dominava la valle e dalla cima della montagna sorvegliava i suoi figli come una madre premurosa.

           La scuola era a metà collina, sul versante orien­tale, magnificamente esposta al sole fino alle prime ore del pomeriggio; ed ospitava gli undici scolari del­la piccola borgata in una pluriclasse unica.

           Una sola stanza al primo piano di una casa di emi­granti messa a nuovo con i fondi del terremoto, con un balcone a due battenti ed uno stambugio senza luce e senza aria sul secondo pianerottolo della scala  desti­nato a bagno, con una tazza di ceramica bianca senza coperchio e senza scarico. Naturalmente senza lavandino e senza acqua corrente!                 

*       *       * 

           Al sorgere del sole, via Bassomanno si animava co­me un formicaio. Grandi e piccoli, uomini e bestie, tutti al lavoro; ad ognuno un compito preciso. Zì Puc­cio, il più vecchio, era sempre il primo a rompere il silenzio dell'alba con regolare abitudine. Usciva con in testa un vecchio cappello, faceva un giro per l'aia sotto il pergolato respirando l'aria fresca del mattino e, dopo un lungo sbadiglio accompagnato da un ampio stiracchiamento delle braccia, si accomodava sul muret­to scalcinato per fumare un pizzico di tabacco che av­volgeva accuratamente e con abili movimenti delle dita in una sottile cartina bianca che poi incollava bagnan­dola sulla lingua.

           Puntualmente nella stalla rintronava un lungo e sgradevole raglio che echeggiava per tutta la valle, dando il segnale di inizio a un simpatico concerto di voci che gareggiavano per mostrare tutta la potenza delle corde vocali o la ricchezza delle modulazioni.

           Cominciavano i cani ad abbaiare isolatamente per continuare, poi, tutt'insieme a latrare  in un crescendo festoso che si sovrapponeva al gloglottìo dei tacchini e dei pavoni, al gru gru delle tortore e al tubi tubi dei colombi. Le galline, razzolando    nell' aia assodata, bezzicavano semi e insetti con aspri coccodè, mentre il maiale grufolava in terra in cerca di cibo grugnendo con sgradevole voce. Le oche, con la solita goffa anda­tura anserìna, delimitavano il loro territorio schia­mazzando ininterrottamente e rincorrevano gli sfortuna­ti invasori pizzicandoli inesorabilmente e mettendoli in fuga con forti gemiti. Su tutte alti si levavano i prolungati chicchirichì dei galli dall' ugola d' oro che si rincorrevano  di pollaio in pollaio fino a perdersi dietro l' ultima masseria. A quel punto, infastidite e scorbellate, le vacche mettevano tutti a tacere con muggiti eloquenti. Ma il silenzio durava pochi attimi! La musica riprendeva come sempre e con più gagliardìa.

           Alle sette in punto il rombo assordante del trat­tore di Barchetti dava la sveglia ai più piccoli che in un baleno si mettevano all' opera. Silvano ed Elia cor­revano a pulire il pollaio, mentre Mario e Fioldisa, più grandicelli, cacciavano il letame dalla stalla e con una vecchia carriola lo portavano dietro il porci­le. Saverio, che abitava nella casa vicina, portava fuori il suo cavallo, un purosangue fulvo dalla lunga criniera che egli amava più di ogni altra cosa; lo strigliava accuratamente e lo lasciava libero dopo a­verlo accarezzato sulla schiena. Il piccolo Puccio, in­vece, che abitava di fronte, si divertiva a rincorrere le galline, che saltavano sul piccolo melo per non far­si spennare, o lanciava calcioni alle povere oche dai movimenti lenti e pesanti.

           Il vecchio volpino bianco di Zì Puccio scorrazzava felicemente da un' aia all' altra e dava il buongiorno a tutti saltellando e abbaiando, fino a scontrarsi con il setter inglese di Saverio, che non ammetteva ospiti in­desiderati nel suo territorio. Si scatenava sistemati­camente una furibonda lotta che si concludeva sempre con la fuga a gambe levate del piccoletto nella stalla più vicina, dalla quale, ormai al sicuro, digrignava i denti al nemico incurante e ringhiava minacciosamente.

           Alle sette e mezza, Ernesto provava a mettere in moto la sua vecchia seicento bianca senza paraurti. Vo­lavano bestemmie e imprecazioni! Ma a farla partire era sempre la spinta dei familiari, i quali poi sbuffavano come mantici per lo sforzo intenso e brontolavano paro­lacce a mezza voce. 

           Donna Concetta, intanto, usciva sul balcone per battere i tappeti e chiamava le due nipotine che dormi­vano nella casa accanto.

<<Giuseppinaaa!... Ermelindaaa!... Svegliatevi!...>>  

           E giù violenti colpi col battipanni.

<<Wagnardelle!... E' tardi!... Fra poco arriva lu mae­stro!... Benedetta televisione!>>      

           L'ultimo a svegliarsi era sempre Rocco, il fratel­lo di Gerardina, strapazzato dalla lingua irriverente di Santino.             

*      *       * 

           Alle otto e trenta, alla vista del maestro che ar­rivava a piedi o con la vecchia cinquecento da Valle­saccarda (dove aveva fittato una stanza ammobiliata), gli scolari buttavano all'aria zappe e pale e correvano a scuola. Silvano spesso si presentava con  gli stivali sporchi di letame. Ci volle più di un mese per fargli capire che doveva pulirli prima di partire da casa.

           Per quei ragazzi la scuola era l'unico momento ve­ramente bello della giornata. L'aula offriva l'occasio­ne per vivere insieme, per trascorrere quattro ore lon­tano dal lavoro, per conoscere cose nuove, per scoprire le meraviglie del mondo nascoste nei libri come tesori in uno scrigno. Grande era la voglia di capire, di im­parare, di violare i confini di Vallon dell'Erro e di guardare di là dall'orizzonte.

           La loro voglia di studiare mi aiutò a gestire un'organizzazione scolastica insolita per me che venivo da lontano, dalla pianura. A Vallon dell'Erro c'erano solo undici alunni per una pluriclasse di montagna, do­ve il maestro doveva coordinare e armonizzare il lavoro diverso di quattro classi, dove il più piccolo imparava dal più grande e il più grande arricchiva il proprio bagaglio di esperienza insegnando ai più piccoli e aiu­tandoli ad affrontare quelle difficoltà che essi già avevano superato. Non c'era competizione, né rivalità, ma solo il piacere di scalare insieme la montagna del sapere. Undici alunni: undici note musicali scritte su un pentagramma per una piacevole armonia!

           Quasi ogni mattina, prima di entrare in classe, accompagnavo gli alunni al vicino pozzo per attingere l'acqua necessaria nel bagno per i bisogni giornalieri. Mario e Saverio, i più  forti, tiravano il secchio di legno con una vecchia corda di canapa che spesso fuo­riusciva dalla carrucola semiarrugginita e si inceppa­va. Bisognava, allora, far scivolare il secchio giù nel pozzo per rimetterla a posto. Era una faticaccia, ma si divertivano ugualmente! Due alla volta portavano l'ac­qua con un secchio più grande nel bidone di ferro si­stemato davanti alla porta del bagno. Quando le condi­zioni atmosferiche erano favorevoli, facevamo una prov­vista maggiore di acqua, affinché potesse bastare anche per i giorni in cui era difficile l'approvvigionamento. 

 *       *       *

           Le prime settimane furono difficili. I più piccoli usavano solo il loro dialetto: un misto di lingua irpi­na e pugliese con accenti e cadenze che il mio orecchio si rifiutava di ospitare. Io non capivo quasi niente e dovevo ricorrere continuamente all'aiuto dei più grandi che traducevano in un italiano più comprensibile.

<<Maestro, ma tu sei sordo?>> mi chiedeva ridendo Ro­sanna, la più grande.

<<Haddina!... Haddina!...>> ripeteva con insistenza Er­melinda, sillabando per farsi capire. <<Ha-ddi-na!>>

<<Hiddu non capisce niente, wuagnardi!>> diceva Miche­le, ingenuamente, colpito dalle smorfie che si stampa­vano sul mio viso.

           Alla fine registrai una lunga conversazione  in dialetto e, di pomeriggio, un amico, tra un caffè ed un bicchiere di vino, mi aiutò a decifrare il loro lin­guaggio. Così diventò più facile dialogare e insegnare! 

*       *       *    

           [...] 

*       *       *      

           Una mattina di sole uscimmo per i campi. L'aria era dolce, l'erba asciutta ed il cielo sereno. Ognuno portò la colazione da consumare lungo la strada.

<<Fate bene! Fate bene!>> ci disse zì Puccio, fermando la zappa al nostro passaggio. <<Una bella passeggiata fa proprio bene alla salute!>>

           Ci inerpicammo su per un viottolo stretto e tor­tuoso, tra arbusti, piante spinose e cespugli di erbe varie.

           Parlavo con gli alunni. Raccontavo tante cose, mentre mordicchiavo due fette di pane di grano (quello buono che faceva mia madre!) farcite con la marmellata di ciliegie. Essi non si stancavano mai di ascoltarmi.

<<Maestro, chi ti ha insegnato queste storie?>>

<<I libri!... I libri e la vita!>> risposi. <<Non è difficile. Ci vuole tanta volontà, tanto amore... Non lo dimenticate mai!>>

           Da lontano giungeva il tintinnìo dei campanacci appesi al collo delle pecore e delle mucche che pasco­lavano sotto lo sguardo vigile del padroncino.

<<Maestro, prendi una fetta di prosciutto! L'ha fatto mamma, quando abbiamo ammazzato il maiale.>>

<<Grazie, Rosanna. Ho la mia marmellata!>>

<<Mangialo!... E' buono!>> fece Michele.

<<Se proprio insistete, ne accetto un pezzettino per farvi contenti.>>

           Ed ognuno immediatamente mi offrì una parte di companatico che aveva nel pane.

<<No, no, grazie!... Me ne basta una!>>  E presi a volo la fetta di Saverio che stava più vicino a me.

<<Maestro, tu sei diverso dagli altri!>> disse Ermelin­da, guardandomi negli occhi.

<<Perché?>>

<<Gli altri non ci volevano bene!>> 

<<E poi... ci volevano solo sfruttare!>> aggiunse Mario con rabbia, sferrando un pugno nell'aria.

<<Due anni fa - ricordò Gerardina - la maestra, una co­sa di Avellino, ogni mattina, appena entrava nell'aula, dava fuoco a dei fogli di giornali... ""Per disinfetta­re l'aula!""  diceva.>>

<<Per ammazzare i microbi!>> ricordò Saverio, scimmiot­tando la sua voce.

<<E mandava via Silvano, quando aveva le scarpe sporche di letame!>>

<<Quell'altro, poi, dell'anno scorso, ci diceva sempre di portargli  del prosciutto, del formaggio casareccio, delle uova...>>

<<Una volta, prima di Natale, ci chiese un pollo!>>

<<Mi raccomando, che sia bello grosso!>> precisò Giu­seppina, allargando le braccia per evidenziarne la mi­sura.

<<Noi facevamo finta di non capire, perchè lui non era mai gentile... E di proposito gli facevamo arrivare fin sotto il naso il profumino delle nostre colazioni, sen­za mai invitarlo ad assaggiarle!...>>

<<Voi invece ci regalate sempre tante fotografie; ci avete portato le noci e le nocciuole del vostro paese...>>

<<E perfino i gelati per festeggiare l'onomastico di Nicolina, perché ha i genitori in Svizzera!>>

<<Noi ti vogliamo bene!>> disse Michele, senza mezzi termini. <<E a Natale ti porteremo tante cose buone!>>

(Invece fui io a portare un piccolo panettone a testa, sorprendendo alunni e genitori!)

           Intanto eravamo arrivati in un bosco di castagni sfoltito      l'anno precedente. Intorno ad un ceppo fradi­cio vidi un grappolo di chiodini, uno stretto all'altro come tanti uccellini di  una nidiata. Li raccolsi e con molta cura feci cadere la terra dalle loro radici.

<<Maestro, buttateli via!... Sono velenosi!>> dissero in coro gli scolari.

<<Velenosi i chiodini?!?>> risposi meravigliato. <<Al mio paese facciamo chilometri per cercarli!>>

<<Noi non li mangiamo questi!>> aggiunse Giuseppina.

<<Invece sono proprio squisiti!... Sentite il profumo?>>

           Fecero una smorfia di disapprovazione... ma capi­rono il mio desiderio.

<<Maestro, se proprio ti piacciono, qua intorno ne tro­viamo quanti ne vuoi!>> disse Elìa per tutti.

<<Allora tutti a cercarli, forza!>>       

           Raccogliemmo tanti chiodini. Tutti belli, giovani, duri, con la testa piccola ed il gambo robusto.

           Tornammo a scuola ripercorrendo la stessa strada, cantando simpatiche filastrocche che si diffondevano in lontananza nella valle echeggiante.

           Di sera, dopo le undici, io già dormivo, quando bussarono  alla porta varie volte.

<<Maestro!... Maestro!>>

           Chi poteva essere a quell'ora? Girai velocemente due volte la chiave nella toppa ed aprii. Era il picco­lo Michele con i genitori.

<<Sarà successo qualche disgrazia!>> pensai, col cuore che mi usciva dal petto.

<<Entrate!... Fuori fa freddo!>>

<<Maestro, chiediamo scusa per l'ora...>> sussurrò ti­morosa Maria Libera.

<<I bambini ci hanno riferito che hai mangiato i chio­dini!>> continuò il marito. <<E noi non potevamo andare a letto...  senza prima scendere al paese... ad accer­tarci... che...>>

<<Maestro, tu vivi solo!>> lo interruppe la moglie.

<<Se ti senti male, non c'è nessuno che ti possa aiuta­re!... Perciò siamo venuti. Ora siamo tranquilli!>>

<<O Dio!... Temevo fosse successo qualcosa!... Fiùuuu! Che spavento!...>>

<<Allora non sei morto?>> mi chiese Michele con l'inge­nuità dei bambini.

<<No... non ancora!>> e gli accarezzai i capelli sorri­dendo. <<Mi dovrai sopportare per un altro poco!>>

<<Maestro, noi andiamo via...>>

<<Io non ho parole per ringraziarvi per la vostra pre­mura... Siete stati veramente cari!...>>

<<Buona notte!>>

<<Ciao, maestro!>>

<<Buona notte... E grazie ancora!... Ciao, Michele!... Ci vediamo domattina.>>

           Tornai a letto e per un pò non riuscìi a dormire. Per tutta la notte ripensai a quegli amici che avevano fatto tre chilometri per venire a sincerarsi del mio stato di salute. Ed erano andati via contenti di avermi trovato... ancora vivo! 

*       *       * 

           Quando nevicava, calzavo un paio di scarponi mili­tari e salivo a piedi fino a Vallon dell'Erro. Aggredi­vo l'erta con passo lento e pesante all'inizio e sempre più leggero e veloce man mano che i muscoli si riscal­davano.

           Calpestavo la soffice neve ancora intatta col di­spiacere di chi sa di deturpare con le tracce del suo cammino un paesaggio incantevole, nel silenzio del mat­tino rotto solo dal frullare di qualche pettirosso in cerca di cibo. Il freddo intenso mi pungeva il viso, ma io provavo un'ebbrezza particolare quando tagliavo con il mio avanzare i fiocchi di neve che cadevano fitti sulla tela che la natura stava colorando con i suoi candidi colori.

           Quando arrivavo alla svolta per via Bassomanno, sistematicamente dovevo difendermi dall'attacco degli alunni che mi aspettavano al varco, dietro il muro di­roccato, per lanciarmi palle di neve. Senza perdermi di coraggio contrattaccavo come potevo e riuscivo a met­terli in fuga, ma essi tornavano alla carica e mi con­ciavano proprio male.

           Finiva sempre in una risata generale e tutt'insie­me, sotto braccio, correvamo ubriachi di gioia fino a scuola, davanti alla quale mi aspettavano  puntualmente donna Concetta o la mamma di Ermelinda per offrirmi il solito caffè corretto con aromatico anice. 

*       *       * 

           L'amicizia tra me, gli alunni, le famiglie e la gente del posto si rafforzava ogni giorno di più. Io passavo interi pomeriggi e serate con loro, rimanendo qualche volta anche a cena. Giocavamo a carte, parlava­mo, aiutavo qualcuno a fare i compiti, raccontavo sto­rie o fatti della mia terra.

           Il mese di dicembre fu straordinario. Subito dopo pranzo, ritornavo a scuola. Con il lavoro degli alunni e di alcuni familiari trasformammo l'aula in un origi­nale presepe.

           In un angolo le colline con tufi, pietre, tronchi di castagno e muschio di montagna. Al centro la capan­na, inghirlandata tutt'intorno con rametti di (odorosa) edera e rivestita all'interno di teneri capelveneri  dalle  fronde verdi  e dai sottilissimi fusti neri.

           Il soffitto diventò un immenso cielo ricco di nu­vole e stelle di cartone che pendevano tenute da un fi­lo di cotone celeste. Sulle pareti disegnammo un pae­saggio palestinese con palme, accampamenti di pastori, pecore al pascolo e cani da guardia, una lunga carovana di mercanti, viandanti a piedi e pellegrini e, dietro l'ultima oasi, avvolti nei regali mantelli,  Gaspare, Melchiorre e Baldassare seguivano la Stella Cometa sui cammelli riccamente bardati.

           Sulla destra Gerusalemme dominava in tutta la sua bellezza, con il tempio di Salomone, la Porta di Dama­sco, la Torre di Davide, l'Orto di Getsemani, le case dei ricchi commercianti con le bianche cupole e i ter­razzi merlati, i tuguri scalcinati dei poveri, le bot­teghe artigiane con gli operai al lavoro. 

*       *       *  

           L'anno scolastico fu lungo e ricco di momenti bel­li, di esperienze importanti, di situazioni meritevoli di essere ricordate. Ed io non ho mai dimenticato i giorni trascorsi a Vallon dell' Erro.

           La notizia del mio trasferimento arrivò inattesa, mentre già mi riorganizzavo per trascorrere un secondo anno lassù, e mi procurò un senso di profonda tristez­za! Avrei voluto rimanere, per continuare a lavorare con quei ragazzi che si erano fortemente affezionati al loro maestro, a un amico che si sentiva parte del loro mondo e che non si disgustava per la puzza di letame che qualcuno spesso portava addosso; a un amico che li aveva messi in contatto con il mondo  di là dall'oriz­zonte con il "Colombo viaggiatore", il giornalino nel quale avevano raccontato gli episodi più interessanti della loro semplice vita quotidiana.

           Ammutolirono gli alunni, quando una mattina trovai la forza di comunicargliela. Per alcuni giorni Silvano non venne a scuola; gli altri quasi non mi rivolsero la parola. Anche i genitori e gli amici rimasero male, ma capirono che altri interessi mi portavano lontano.

           Quando arrivò il giorno della partenza, ci guar­dammo negli occhi e ci lasciammo col proposito di rive­derci.

<<Addio, maestro!>>

<<Non ci dimenticare!>>

           E piansero... mentre mi allontanavo in macchina!

         Ed io non li ho più dimenticati quegli undici alunni: Barchetti Silvano e Paglia Michele (classe 2ª), Pizzulo Giuseppina, Barchetti Elia e Giglio Rocco (classe 3ª), Lo Russo Nicolina, Giannetta Saverio, Barchetti Mario, Pizzulo Ermelinda e Giglio Gerardina (classe 4ª), Paglia Rosanna (classe 5ª).