(Baiano, 12 aprile 1928 * 30 gennaio 2005)
Nato da Vincenzo e Luisa Bocciero.
È stato coautore con Antonio Vecchione delle seguenti opere:
"Il Maio di Baiano:
La festa, la memoria, la gente”, Tipografia Teti, Napoli, 1997.
"Baiano", Elio Sellino Editore, Pratola Serra (Av), dicembre 2002.
"Baiano e Santo Stefano", Ler editrice, Marigliano (Na), 2004.
Ha scritto su quotidiani locali e nazionali; articoli sportivi per “Il Mattino” e per il “Roma; articoli culturali per il quadrimestrale “L’Irpinia Illustrata”; è stato redattore culturale per il quotidiano “La Gazzetta dell’Irpinia” ed ha collaborato a lungo come critico musicale alla rivista “Nuovo meridionalismo”.
Ha recensito numerosi lavori di musica contemporanea.
È stato presidente dell’Associazione e dell’Orchestra “Vincenzo Vitale” di Avellino e della “Corale Irpina” diretta dal Maestro Renato Colella.
È stato l’animatore del Comitato promotore della nascita del Conservatorio di Musica “Domenico Cimarosa” di Avellino, insieme al suo amico Ettore Maggio, che ne divenne il primo Presidente. Insieme convinsero il grande compositore, il Maestro Bruno Mazzotta, ad accettare l’incarico di Direttore.
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Il testo “Il Maio di Baiano” aveva la finalità di far conoscere alle nuove generazioni la tradizione della festa del Maio, provando a rispondere alle domande “Da dove viene, cos’è e da quando esiste?”. Dopo un excursus sulle cosiddette «messe ‘e notte» e sul bosco di Arciano, viene sottolineato il coinvolgimento del popolo nella festa e soprattutto nella raccolta delle “sarcinelle” per il “focarone” ai piedi del Maio.
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Di respiro più ampio è “Baiano”, un vero atto d’amore per il paese nativo, composto in età avanzata dopo essersi dedicato prima «agli studi antropologici e ad una personale ricerca di ricostruzione delle radici strutturali della comunità baianese». In questo testo viene disegnato «un affresco epico e insieme lucido, a tratti impietoso, dell’evolversi della storia della comunità, facendo riemergere dall’oblio nel quale già stavano per perdersi, i volti, le voci e le storie di tanti uomini e donne, di tanti rituali sociali, di una Weltanschauung (N.d.A: visione del mondo) popolare». (bassairpinia.it, novembre 2015, N.R.)
I personaggi del libro rappresentano il percorso del mutamento storico di Baiano, mentre i fatti raccontati ne sottolineano il cambiamento sociale.
L’opera è uno scrigno ricco dei valori propri della civiltà contadina e della nostra terra, recuperati per essere trasmessi dalla società passata a quella presente, affinché non vengano dimenticate le radici di noi tutti, la cui conoscenza ci dà linfa per affrontare il futuro.
Significativa è la convinzione degli autori «che conservarne la memoria, tramandarne lo straordinario patrimonio di personalità ed esperienze, raccontando la dura vita dei nostri genitori, le loro speranze, i modi di esprimersi, di giocare, di cantare, la partecipazione di essi alla coralità esistenziale paesana possa essere utile ai “giovani” di oggi per far loro acquisire la piena consapevolezza delle proprie radici. […] Abbiamo raccolto, a questo scopo, testimonianze e ricordi di baianesi delle ultime generazioni passate […] con la speranza che tali storie diventino prezioso patrimonio e memoria della nostra comunità». (pp. 7-9)
“Indagando sulla vita di una volta” gli autori non possono fare a meno di soffermarsi “sul settore dell’artigianato”. «Le botteghe artigiane –scrivono- spesso povere, anguste, in “bassi” o all’aperto davano vitalità all’intero paese che, senza […] le loro voci ed animazione sarebbe apparso deserto, morto». (p.164)
A chiusura dell’opera un capitolo dedicato ai giochi che i ragazzi praticavano fino agli anni ’60, così presentati.
«A quel tempo i giochi erano caratterizzati da regole elementari, semplici mezzi di realizzazione e grande ingenuità: l’essenza intima del divertimento era la possibilità di stare insieme e di inventarsi azioni ricreative di stupefacente candore. Essi sviluppavano un maggior senso sociale, introducevano nella vita di gruppo, di quartiere, del vicolo, del cortile. Servivano in primo luogo a dare un senso al tempo soprattutto nelle tiepide serate estive ed erano semplici, necessariamente semplici, fatti di niente, in quanto i ragazzi non avevano niente ed erano felici di niente. Giocavano ad essere più veloci, più svelti, più furbi, più abili; giochi liberi per passare il tempo, per dare sfogo alla loro fantasia, ma frattanto necessari per crescere nella mente e nel corpo».
Nella prefazione di Marino Niola si legge che «Gli autori restituiscono il profilo di questo territorio dell’anima campana con spirito etnografico e, insieme, con un vivo senso del trascorrere dei luoghi, destinati a passare con i tempi. Che pure non approda ad un paesaggio della nostalgia, ad un racconto della perdita, ma piuttosto ad un recupero della verità nascosta nei nomi e dispersa nell’oblio del quotidiano. L'ethos e il pathos della civiltà contadina vengono sbalzati fuori, messi in rilievo da una scrittura che attraversa gli spazi e i tempi della comunità, i mestieri, i cibi, le festa, la fauna e la flora, gli uomini e gli oggetti». (p.5)
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Non poteva mancare nell’opera di Orazio un omaggio al primo martire della cristianità. Ed ecco che nel 2004 vide la luce il libro (scritto sempre a quattro mani) “Baiano e S. Stefano”, «una sorta di atti delle celebrazioni che Baiano e per esso il rev. don Fiorelmo […] hanno inteso realizzare per dare un giusto, doveroso, partecipato, solenne rilievo ad una ricorrenza cui l’intera popolazione è particolarmente sensibile: quella del 26 di febbraio, festa votiva di riconoscenza, per grazia ricevuta, a Santo Stefano protomartire, patrono del paese. […] La pubblicazione conterrà il resoconto delle funzioni religiose e delle iniziative culturali che hanno preceduto ed accompagnato la celebrazione centenaria evidenziandone il significato profondo mediante anche un’indagine evocativa di quello che chiameremo “il comune sentir popolare”, infarcito di ricordi, speranze, convinzioni fideistiche e -perché no- delusioni. Conterrà, inoltre, una riflessione appassionata sulla figura, come uomo e come Santo, di Stefano Levita; una riflessione, forse non rigorosamente dogmatica ma di certo laicamente scrupolosa, tendente a porre in rilievo la grandezza del suo messaggio e dell’opera sua nonché l’influenza ch’egli ha avuto sulla civiltà […] occidentale, sviluppatasi nei due millenni che ne hanno seguita la morte» (p. 17)
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Per presentare la figura di Orazio Bocciero, quale modo migliore se non attraverso quanto lui stesso scrive di sé sulla bandella editoriale della copertina del libro “Baiano”?
«Scrivere di me non mi affascina. Ma, al momento, è opportuno e cortese ch’io mi presenti: Orazio Bocciero, baianese dalla nascita (12 aprile del 1928).
Discendo dalla stirpe Bocciero e poi Boccieri e Bucciero che, nel XVI secolo o giù di lì, praticamente impiantò l’agglomerato urbano di Baiano così come (in nuce) ci è pervenuto. Di famiglia piccolo borghese seguii utilmente gli studi secondari classici e senza grande profitto quelli universitari, tecnici.
Ho sempre mantenuta residenza e domicilio in paese pure avendo trascorsa una parte cospicua della mia vita fisicamente fuori di Baiano o limitandomi al solo dormirvi essendo, in effetti, distaccato dal contesto socio-politico-culturale cittadino.
Non ho, tuttavia, mai disconosciuto la civiltà contadina e le tradizioni, delle quali sono e mi sento figlio ed alle quali sono convintamente e gelosamente legato.
Ho avuto una gratificante collocazione personale nella società, una stupenda famiglia (moglie e figli al di là dei miei meriti) ed una vita pubblica e lavorativa molto varia, intensa e senza dubbio anche soddisfacente.
Le mie vere passioni, però, erano (e sono) lo scrivere e la musica, quest’ultima di natura genetica.
La prima l’ho sempre alimentata collaborando, tra l’altro, nel corso di decenni, amatorialmente, a svariati quotidiani, locali e nazionali, nonché a periodici (in particolare, ancora oggi, il mensile avellinese “Nuovo Meriodionalismo” diretto dall’avv. Generoso Benigni ed il quadrimestrale “L’Irpinia Illustrata” diretto da Elio Sellino). La seconda, invece, mi venne operativamente preclusa dalla temperie del tempo (esemplarmente definita dalla retriva, assurda identità allora in voga: “musicista = musicante”) temperie la cui influenza, tuttavia, sarebbe stata certamente neutralizzata senza la concomitanza sfavorevole di grettezze di parenti ed insegnanti, e, soprattutto, dei venti di guerra e delle guerre reali che imperversarono durante le intere mie infanzia ed adolescenza.
Ma, scriveva il mio venerato omonimo Quinto Orazio Flacco: “Natura expelles furca, tamen usque recurret” (“Caccerai l’indole naturale con il forcone, tornerà ugualmente”, Epistole, I, 10, 24) ed infatti se la musica non l’ho nelle mani l’ho certamente nel cuore, se non la so suonare la so certamente ascoltare e le sono amico, ci capiamo. Inoltre, e non è poco, ho un figlio musicista.»
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Chi potrà mai dimenticare la straordinaria presenza che ha avuto nella tradizione filodrammatica di Baiano. Grazie alle sue numerose competenze, oltre ad essere stato un maestro di declamazione per gli attori delle varie compagnie teatrali di Baiano, svolgeva il duplice ruolo di regista per la preparazione e la messa in scena di importanti opere del teatro di Eduardo De Filippo (Filumena Marturano, Non ti pago) e di Scarpetta (Miseria e nobiltà) e di suggeritore dalla buca posta nella ribalta durante le rappresentazioni nello storico cinema-teatro Colosseo di Baiano.
«È stato uno dei pochi registi ad avere sempre da Eduardo il permesso di mettere in scena i suoi lavori e quelli di Scarpetta, di cui deteneva i diritti», mi ha raccontato la figlia Luisa. «Eduardo era molto severo e non delegava a nessuno le autorizzazioni. Aveva mandato qualcuno ad assistere ad alcune recite e lo riteneva all'altezza».
La sua disponibilità ad offrire gratuitamente il suo talento lo portò già in un lontano passato a collaborare con la maestra Antonietta Barone, allorquando nel 1971 lei mise in scena nel Colosseo l’operetta in tre atti del maestro Romolo Corona “Scarpette rosse”. Anche allora curò la regia e fu il suggeritore dalla buca.
«Ha avuto molti talenti», mi ha confidato ancora la figlia, «a mio avviso limitati proprio dal suo incrollabile attaccamento al paese, da cui non è mai voluto venire via. Sono certa che se avesse studiato lettere o musica, come desiderava, e non ingegneria meccanica, come desideravano i suoi, sarebbe stato molto più libero e realizzato e avrebbe fatto molte più cose».
Certamente Orazio Bocciero è stato un uomo complesso e pieno di risorse: baianese purosangue, tenacemente attaccato alle proprie radici e al proprio territorio, ingegnere per forza, bibliofilo e musicofilo per passione, grande intrattenitore e raffinato conversatore
Seduto alla sua scrivania, intento a ricreare il mondo tra quelle quattro mura rivestite da migliaia di libri, usando ogni sistema, anche tecnologico, per stare sempre al passo coi tempi, antico e moderno insieme, colto e popolare, era sempre informato su tutto; seguiva l’evolversi delle culture, dei problemi etici e politici del mondo, in modo da poter sostenere conversazioni sia con esperti di alto livello che con la gente semplice per il suo profondo senso di appartenenza alla propria comunità.
Tutto sommato ha fatto tanto ed ha lasciato certamente tanto a chi ha avuto il piacere di incontrarlo lungo il cammino della vita.