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I ragazzi dei Vesuni


Il quartiere era il nostro mondo. Era lì che si passava il nostro tempo libero a giocare, a parlare, a programmare le nostre imprese del giorno dopo. Giochi tradizionali, belli, dal fascino che sapeva di antico, di semplicità, di genuinità, che sono oramai scomparsi e con essi l'innocenza e e l'ingenuità di quegli anni!
Era bello stare tutti insieme! Un gruppo compatto, granitico, che non accettava facilmente le ingerenze di corpi estranei provenienti dagli altri quartieri, a costo di finire in rissa e scambiarci botte a più non posso. Porto ancora in testa una cicatrice che mi procurò un ragazzo del quartiere San Giacomo in occasione di una battaglia serale.
Finalmente, poi, la domenica - come aspirazione massima - si andava in piazza, al cinema o nel bar di Rachele a giocare al bigliardino. O a passare, come tanti scoiattoli, da una quercia all'altra, dalla prima all'ultima, tra i rami fittissimi prima della potatura, in piazza Francesco Napolitano, facendo cadere foglie e ghiande (le cosiddette "pipparelle") sulla testa della gente seduta sulle panchine sotto gli alberi. E si andava via solo dopo aver completato l'intero giro!
Quello che ricordo con maggiore piacere erano le scorribande per i giardini o le campagne a rubare la frutta e, purtroppo, a fare danni che mi vergogno ancora oggi a raccontare.
Una volta ci organizzammo per andare a rubare le arance nel giardino che ora appartiene all'ing. Pietro Foglia, ex Sindaco, in via San Giacomo, nel cosiddetto "largo Picciocchi". C'era la luna. Il cielo era stellato e sereno. Arrivammo quatti quatti sotto l'albero più ricco di frutta. Fui io ad arrampicarmi tra i rami, essendo il più agile del gruppo. Dopo aver riempito la camicia, cominciai a buttar giù le arance agli amici che aspettavano con le mai tese, quando sul balcone che sporgeva proprio su quell'albero all'improvviso si affacciò il professore "Cicione" (alias Sgambati Francesco) con la gentile consorte, signora .... Aniceto Colucci. Poggiarono le braccia sulla ringhiera e, mentre assaporavano l'aria fresca della serata, parlavano del più e del meno. Io rimasi immobile attaccato ad un ramo, cercando di non far rumore, per evitare di essere scoperti e di fare una figuraccia con lui che ci avrebbe certamente riconosciuti anche nel buio del giardino. Lui parlava, parlava, parlava... La moglie ascoltava, ascoltava, ascoltava... Ed io sudavo, sudavo, sudavo freddo! Sfiancato dalla scomoda posizione, anche se sorretto dalle mani degli amici, mi mossi e... "Chi è là?" sentìi gridare con un vocione forte come un botto di cannone. "Sarà un gatto!" ripeteva la moglie del professore, il quale, senza pensarci su due volte, lanciò verso di me un bastone che stava sul balcone. Fu a quel punto che mi lasciai cadere addosso a chi mi sorreggeva e... tutti a scappare verso la strada e lontani dalle coloratissime imprecazioni del professore Cicione (che a distanza di anni ancora riecheggiano sonoramente quando io cammino tra le strade dei Vesuni), al quale professore, poi divenuto caro amico, chiedo perdono ora per allora!

Un'altra volta procurammo tanti danni e prendemmo, naturalmente, tante botte (ognuno dai propri genitori) che lasciarono il segno per molto tempo. Dove ora c'è in via Nicola Litto il fabbricato del dottor Peppe Colucci e della veterinaria, dottoressa De Palma, di Matteo Colucci e di Rosetta 'a mugnanese, c'erano solo i pagliai per gli animali appartenenti alle famiglie Picciocchi e Colucci (zì Peppe 'o ...., zì Stefanina e zì Filomena 'e quadrellese, zì Gioacchino 'o...).
Stavamo giocando a nascondino! Quale posto migliore di quello per non essere scoperti da chi ci doveva cercare?! Tutti ebbero la stessa idea e uno dopo l'altro ci ritrovammo sui deboli pagliai, non abilitati a sopportare il nostro peso. Così, in men che non si dica, all'improvviso si schiantarono e con noi in mezzo crollarono rovinosamente su quelle povere bestie! Non sto qui a raccontarvi le ferite che ognuno fu costretto prima a leccarsi e poi a mimetizzare per evitare la sicura punizione, che invece arrivò severa, sacrosanta e meritata. Ma non bastò a farci mettere giudizio nelle zucche immature! Nuove avventure ci aspettavano. E nuove e numerosissime avventure ci furono, e ci fecero crescere fino a quando, sazi ma ancora non appagati e ricchi di energie inesplose, ci ritrovammo adulti con la testa a posto, pronti a mettere a disposizione del quartiere e del paese la nostra forza, le nostre capacità, il nostro cuore! Tempi belli che non tornano più, ma che forgiarono lo spirito e le membra! E ci fecero diventare uomini! (Montella Carmine)

(Giugno 2007)